Difficile è raccontare e parlare
della Shoah: un racconto, di sua natura, si snoda piano in una coerente
successione di fatti nei quali normalmente, anche quando si parla di guerre e
d’orrori, vita e morte, gioie e dolori, pietà e crudeltà si mescolano e
s’intrecciano.
Parlare della Shoah ci dovrebbe portare in un’altra
dimensione, perché solo di morte e di prospettiva di morte e di volontà di
dare la morte in primo luogo si tratta: sterminare un intero complesso umano
identificato negli ebrei e in coloro che i nazisti, con i loro criteri,
identificavano come tali, tutti, dai bambini appena nati ai vecchi. La difficoltà
del racconto storico sta nel fatto che tradizionalmente è insito in esso, nel
suo stesso svolgersi discorsivo, la tendenza di rendere plausibile, in qualche
modo accettabile, per la volontà stessa di “spiegare”, ciò che appare, da
un altro punto di vista, del tutto implausibile, inimmaginabile, incredibile.
Tuttavia la Shoah è un fatto accaduto, per questo bisogna parlarne.
Tanto più quanto impensabile, incredibile, inimmaginabile, enorme una
tale vicenda risulta.
L’intervento, diviso in due parti,
sarà molto schematico e alcuni aspetti saranno appena sfiorati.
Nella prima parte ricorderò
brevemente i diversi momenti e modi di realizzazione della Shoah, nelle
condizioni create dalla seconda guerra mondiale, per risalire poi alle premesse,
più o meno vicine, che ne hanno nutrito l’idea e ne hanno in vario modo
predisposto e permesso l’attuazione.
Nella seconda parte mostrerò
sinteticamente ciò che è stato ed è la memoria e la storiografia della Shoah
e insieme i problemi, i dubbi, le difficoltà che sono loro propri, problemi,
dubbi e difficoltà che mettono in discussione alcuni criteri fondamentali del
lavoro storiografico, e il modo insieme con cui è pensato e inteso sia dagli
addetti ai lavori, sia dal pubblico più vasto cui tali addetti si rivolgono.
La decisione di uccidere tutti gli
ebrei, sia quelli già concentrati in Polonia, sia deportandoli là dalla
Germania e dagli altri paesi Europei occupati e controllati dai tedeschi, maturò
e prese forma nell’ambito dell’aggressione alla Russia, tra l’estate e
l’autunno- inverno del 1941.
L’idea di rendere la Germania
judenrein (ripulita dagli ebrei) come all’indomani delle prime strepitose
vittorie tedesche come di rendere judenrein l’intera area europea caduta sotto
il controllo tedesco, di far sparire (verschwinden, come disse Hans Frank) gli
ebrei dall’Europa, è precedente all’attacco alla Russia, è parte
integrante del programma nazista, del suo antisemitismo, ma non si
pensava ancora fosse possibile l’uccisione sistematica e indiscriminata
di tutti gli ebrei. Si aveva in mente la loro concentrazione e ghetizzazione
prima, la loro deportazione poi, (per un certo tempo, dopo la vittoria sulla
Francia, si pensò al Madagascar). Era dato per scontato ed era considerato un
particolare del tutto irrilevante che una tale operazione comportasse la morte
di molti. Già nel corso delle operazioni belliche in Polonia e poi nel primo
anno d’occupazione, non erano mancati assassini d’interi gruppi d’ebrei,
come anche scene selvagge nei primi trasporti che nel mese di dicembre erano
partiti da Vienna, dalla Boemi e dai territori polacchi annessi al Reich, poi
momentaneamente sospesi, che erano indirizzati verso quella parte centrale della
Polonia costituita in governatorato generale sotto il comando di Hans Frank. Più
in generale si può aggiungere che nell’ideologia razzista del nazismo e
nell’immagine che offrivano degli ebrei, come nella legislazione stessa e
nella prassi che n’era seguita, vi era già implicita una cupa carica di
morte; non vi era però ancora il programma di uccidere tutti.
L’aggressione alla Russia creò
condizioni nuove e inaugurò insieme una prassi d’omicidio sistematico, che si
tradusse rapidamente nel programma d’eliminazione totale di tutti gli ebrei
europei.
Una serie di fatti sono assolutamente lampanti: attraverso il
progressivo affermarsi e realizzarsi di una tale prospettiva, mostrano con
chiarezza che la determinazione di realizzare la soluzione finale del problema
ebraico, attraverso lo sterminio, si concretò tra l’agosto e il novembre del
1941.Cominciarono Einsatzgrupp, truppe scelte delle SS che seguivano
l’avanzata della Wehrmacht col compito di ripulire le retrovie. Agli inizi di
giugno, poco prima dell’attacco, Hitler aveva emanato il Komissardefel?,
l’ordine di eliminare tutti i commissari politici dell’esercito e
dell’apparato sovietico caduti in mano dei tedeschi. Fin dall ’inizio
l’operazione Barbarossa , com’è chiamato l’attacco alla Russia, si
caratterizzò come una guerra particolare : di sterminio ideologico e di
schiavizzazione. All’inizio, in quel contesto, gli ebrei restano marginali
,sono ammazzati anch’essi , ma gli assassini non li riguardano in prevalenza ,
inoltre sono ammazzati soltanto uomini. Con la seconda metà d’agosto. I
massacri degli Einsatzgrupp segnano un netto mutamento sia quantitativo sia
qualitativo, (ci hanno lasciato rapporti scritti della loro attività che,
com’è stato scritto , sono tra le più sinistre vestigia scritte del III
Reich) .Nel mese di luglio la Einzatokomm 3, che opera in Lituania, massacra
4239 ebrei di cui 135 donne, ma in agosto gli ebrei sono già 37186 ,di cui
32400 dopo il 15 agosto, per raggiungere poi un altro aumento in settembre ,
56459di cui 26243 donne e 15112 bambini. Tali fatti ,come del resto esplicite
testimonianze del dopoguerra, suggeriscono l’idea dell’esistenza di un
ordine di passare al massacro indiscriminato degli ebrei, ordine che culminerà
nel massacro di Babi-Yar,presso Kiev, dove tra il 29 e il 30 settembre furono
uccisi 33771 ebrei. Di tali massacri circola ampiamente voce in Germania, sono
registrati nei diari , ne parlano e ne scrivono i soldati che tornano dal
fronte; è poi significativo che mons. Berning, vescovo di Osnabruchk, può
scrivere nei suoi appunti “esiste chiaramente un piano di eliminare
completamente gli ebrei” e poi aggiunge” Che cosa può succedere? Possono i
vescovi darne pubblica denuncia dal pulpito?” Nel giugno del ’42 monsignor
Grober scrive a Pio XII: “La teoria e la prassi del nazionalsocialismo si
caratterizza non soltanto come un antisemitismo il più radicale ,che mira
all’annientamento dell ‘ ebraismo nella sua cultura, ma come un
antisemitismo che mira all’annientamento anche nei suoi appartenenti. La
questione è ormai in mano della polizia di sicurezza.
Il 3i luglio del ’41 Göring
scriverà a Reihand Heydrich “…di prendere tutte le iniziative opportune e
di presentare le proposte pi utili per conseguire la” Endlösung der
Judenfrage”.
Appare del tutto fuori luogo la
discussione su come ,chi, dove , quando è stato ordinato, è chiaro che
l’ordine non poteva che partire dalle più alte autorità del Reich ,cioè dal
Fhürer ,anche se ci fu un grandissimo coinvolgimento di autorità alte medie e
basse.
I mesi successivi un susseguirsi di
fatti mostrano che si è passati all’attuazione piena, ma cercando di evitare
almeno in parte le scene pubbliche di massacri che avevano caratterizzato
l’opera degli Einsazgrupp; non si riuscirà mai del tutto: l’evacuazione dei
villaggi che proseguirà lungo tutto il 1942comportano spesso scene selvagge,
ammazzamenti diretti; si cerca quindi di adottare un metodo diverso, la via dei
campi.
Si può seguire una serie di tali
fatti. Gli ebrei tedeschi dal settembre del 1941 sono tenuti a portare il segno
distintivo, e dall’ottobre sono destinati alla deportazione verso est. In
quello stesso mese Heinrich Lohse ,Gauleiter dell’Ostland (antichi territori
baltici) è autorizzato per scritto ad eliminare tutti gli ebrei inabili al
lavoro, sia quelli trovati sul posto sia quelli deportati, utilizzando la
gassazione con CO nei camion concepiti da Victor Brack, in occasione
dell’operazione T4 ,l’operazione dell’eliminazione degli handicappati e
ammalati mentali che aveva avuto luogo dal settembre del ’39 alla primavera
del ’41,operazione che si può considerare il preambolo tecnico della Shoah .
Tra novembre e dicembre è avviata
la costruzione di Belzn. e del
complesso industriale e di sterminio di Auschwitz -Bikenau ,alla fine di
novembre i primi convogli di ebrei tedeschi sono inviati a Riga ,agli inizi di
dicembre, poi, avvengono le prime gassazioni tramite i camion attrezzati a
Chelmno come conseguenza della prima parziale evacuazione del ghetto di Lodz .
Il 20 gennaio la conferenza di Wannzer, che era stata rinviata dal dicembre in
seguito agli interventi in guerra degli Stati Uniti , ha il compito di
coinvolgere e organizzare nell’opera di stermino l’impegno dei vari uffici
ministeriali. Con la primavera–estate del ‘42 i quattro campi (Chelmno,
Treblinca, Belzn, ……………..) destinati esclusivamente allo sterminio
funzionano a pieno ritmo. Vi affluiscono gli ebrei raccolti tra il ’40 e il
’41 nei grandi ghetti delle città polacche o annesse alla Germania (Lodz,
Cracovia , Lublino , Leopoli), e con il 22 luglio del ‘42 inizia lo
svuotamento del più grande ghetto d’Europa in quel periodo, il ghetto di
Varsavia .
Accanto a questi quattro campi che
sono destinati soltanto ad uccidere, dove permangono soltanto stabilmente le
guardie e i “sonderkomando” addetti all’opera dei forni, funzionano due
altri campi che sono, di lavoro e di sterminio, Auschwizt e Majdemek.
La circolare del 30 aprile del 1942
di Oswald Pohl ,da poco preposto al dipartimento economico delle SS, dispone in
modo preciso l’impiego dei detenuti nella produzione bellica, ne conseguiva
l’eliminazione immediata degli inabili, mentre per gli altri era previsto
l’annientamento attraverso il lavoro.
Nell’estate del ’42 iniziano le
deportazioni d’occidente ,direttamente verso i campi ed è questa la stagione
delle grandi razzie in Francia, Olanda, Belgio, Slovacchia, ecc. Il 4 luglio del
’42 c’è la prima selezione ad Auschwizt di un convoglio di ebrei Slovacchi
e l’ultima avverrà il 3 novembre del 1944. Dalla primavera del ’42 all’
autunno del ’44 la macchina lavorerà a pieno ritmo. Poi si fermerà, anche se
continueranno uccisioni, esecuzioni sommarie, e altissimo sarà il numero dei
morti durante l’evacuazione dei campi per sfuggire all’avanzata Russa.
L’esito complessivo delle deportazioni sarà dai cinque ai sei milioni
d’ebrei sterminati, interamente distrutto l’ebraismo polacco e la cultura
Yddish, duramente colpite le comunità ebraiche della Russia, dell’Europa
centrale e occidentale e della penisola Balcanica.
Nella guerra dunque la Shoah prese
corpo, le rese possibili una duplice condizione, da una parte il largo controllo
nazista sull’Europa, dall’altra il venire meno della prospettiva di una
rapida sconfitta della Russia, che avrebbe aperto alla Germania gli immensi
territori al di qua e di là degli Urali per quella prospettiva di deportazione
schiava che doveva sancire la dominazione dell’Herrendfol, del popolo
dominatore.
Goebbels scrisse chiaramente nel suo
diario del 27 marzo 1942 che il contesto bellico avrebbe permesso e sollecitato
tale “soluzione” ,”Verso gli ebrei viene eseguito un castigo che è a dire
il vero barbarico, che essi però hanno pienamente meritato.La profezia che il Führer
aveva loro annunziato nel caso dello scoppio di una nuova guerra mondiale, fatto
nel discorso del 30 gennaio del ’39,comincia a realizzarsi nel modo più
terribile. In queste cose si può lasciar non sussistere nessun
sentimentalismo…….Si tratta di una lotta per la vita o per la morte tra la
razza ariana e il bacillo giudaico. Nessun altro governo, nessun altro regime
poteva trovare la forza di risolvere tale questione in termini generali. Anche
qui il Führer è l’irremovibile propugnatore e interprete di una soluzione
radicale che è offerta dalle circostanze e che perciò appare inevitabile.
Grazie a Dio abbiamo ora durante la guerra una serie di possibilità che un
tempo ci erano precluse: dobbiamo sfruttarle. I ghetti del governatorato
generale che stanno rendendosi liberi verranno ora riempiti dagli ebrei
deportati dal Reich e qui dopo un certo tempo il processo dovrà ripetersi
:l’ebraismo non ha proprio di che ridere……….”
Stabilito il peso di tali
circostanze, l’insperata opportunità che venne ad offrire, si possono
aggiungere tuttavia tutta una serie d’altri rilievi e considerazioni: in primo
luogo il fatto che questo punto d’arrivo ha i suoi fondamentali e necessari
presupposti da una parte sull’ideologia e sulla prassi dei nazisti verso gli
ebrei, nella martellante campagna antisemita e nelle misure d’emarginazione,
degradazione ed espulsione sociale che l’ aveva accompagnate nel corso degli
anni trenta, e dall’altra nella debolezza delle opposizioni,
nell’indifferenza, nella condiscendenza, nei quasi espliciti o larvati
consensi, con cui quelle campagne e quelle misure erano stati accolti
dall’opinione pubblica europea. Non è un caso che diversi stati, già prima
dello scoppio della guerra, sentirono il bisogno di mettersi al passo con la
Germania (Polonia, Ungheria, Romania, Italia).
Va quindi rilevata l’impregnazione
d’antisemitismo nella società europea degli anni trenta, vi sono, infatti,
tradizioni politiche autoctone e depositi di lunga durata ostili agli ebrei che
spiegano tale situazione e la nascita d’atteggiamenti assunti verso la
persecuzione avviata dai nazisti fin dal loro avvento al potere.
Le radici di tutto ciò vanno
ricercate più lontano, non solo nella lunga, secolare tradizione dell’anti
ebraismo cristiano, fatto di disprezzo, denigrazione e persecuzione, ma
soprattutto e in particolare nel formarsi negli ultimi decenni dell’ottocento
di movimenti e partiti che facevano dell’antisemitismo un elemento centrale
della loro ideologia e della loro propaganda. Sono protagonisti, da versanti
diversi, i nemici dell’ordine esistente, ispirato ad orientamenti liberali,
gli ebrei sono visti e in parte si sentono essi stessi simbolo della modernità;
negli ultimi decenni dell’ottocento l’antisemitismo è bandiera di tutti i
movimenti che sono avversi a quest’ordine, si ritrova nel movimento
socialista, in quel nazionalista, nei partiti e nei movimenti cattolici, in
diversi paesi come Francia, Austria-Ungheria, Germania, Italia dove la stampa
confessionale negli ultimi decenni dell’ottocento scatena una violentissima
campagna antiebraica .La campagna antisemita completamente rimossa dalla nostra
storiografia, è un fatto Europeo con il fine chiarissimamente espresso di
ridare una rinnovata egemonia sociale della Chiesa. Questa prospettiva fallisce
con l’affaire Dryfus, in cui i cattolici sono in prima linea e sperano e
contano di spezzare la concentrazione repubblicana, in realtà Dreyfus è
dimostrato innocente e così l’affaire si risolve con una sconfitta politica,
che porta ad un accantonamento della campagna antisemita da parte delle forze
politiche cattoliche, accantonamento che non significa revisione, ripensamento,
riesame se non in piccole minoranze. Resta la memoria e continua ad operare tale
memoria: è significativo che negli anni trenta si sia consapevoli del carattere
anticristiano dell’ideologia nazista, e per questo ci si affanna a distinguere
tra un antisemitismo lecito, dovere di coscienza d’ogni buon cristiano, e un
antisemitismo vietato razzista, quello dei nazisti.
Vi è tuttavia un ampio arco di misure discriminatorie, che ripete quanto
per decenni i cattolici, in Germania anche i protestanti, hanno proposto e
ancora proponevano. Non va
dimenticato che il congresso della democrazia cristiana di Lione nel 1896
propose l’abolizione dell’emancipazione, e nel maggio del 1895 su proposta
di due deputati cattolici la camera francese respinse il ritiro
dell’emancipazione, in altre parole il ritorno alla situazione protetta, con
299 contro 206; in Civiltà cattolica poi, il 16 luglio 1938, padre Barbera a
proposito delle leggi che si stavano introducendo in Ungheria scrisse: “
L’antisemitismo dei cattolici ungheresi non è l’antisemitismo volgare
fanatico né l’antisemitismo razzista, è un movimento di difesa delle
tradizioni nazionali e della vera libertà e indipendenza del popolo magiaro.”
In quello stesso anno padre Rosa,
una delle figure più eminenti di Civiltà cattolica, recensendo un volume molto
antinazista e avverso all’antisemitismo nazista, dopo averlo elogiato continua
così “ Esagera tuttavia l’autore, troppo immemore delle continuate
persecuzioni degli ebrei contro i cristiani, particolarmente contro la chiesa
cattolica e dell’alleanza loro con i massoni, con i socialisti e con altri
partiti anticristiani, esagera troppo quando conchiude che sarebbe “non solo
illogico e antistorico ma un vero tradimento morale se oggidì il cristianesimo
non si prendesse cura della sorte degli ebrei”, né si può dimenticare che
gli ebrei medesimi hanno richiamato in ogni tempo e richiamano tuttora su di sé
le giuste avversioni dei popoli con i loro soprusi troppo frequenti e con
l’odio verso la Chiesa medesima, la sua religione e la sua Chiesa
cattolica.”
E’ un capitolo complesso, in parte
ancora da ricostruire, non c’è dubbio che né la chiesa né i cattolici,
salvo rare eccezioni, siano promotori e protagonisti di campagne antisemite
degli anni trenta. La speranza poi di fare di tale campagna un volano per un
ampio ritorno sotto le ali della Chiesa è caduta. Resta la memoria di tante
proposte fatte, restano i giudizi sugli ebrei e sul loro ruolo nella storia e
nella società che in qualche modo s’incontrano con le misure di
discriminazione avviate dai nazisti.
In questo sta una prima difficoltà
per la Chiesa a scendere in campo a difesa degli ebrei perseguitati dai nazisti.
Certo non c’è dubbio che soprattutto in Germania la chiesa cattolica si senta
fortemente minacciata essa stessa, è in corso una persecuzione religiosa contro
la chiesa cattolica, ma non si tratta solo di questo.
Ritornando all’operazione
eutanasia, l’operazione T4 di eliminazione degli ammalati mentali e degli
handicappati, erano tedeschi “volksgnussen” compatrioti, che erano uccisi e
quindi i vescovi scendono in campo, monsignor ……………….Vescovo di
……………pronuncia nell’aprile –maggio nel 1941 tre omelie pubbliche e
con lui altri, determinano il blocco o per lo meno un fortissimo rallentamento
dell’eliminazione degli ammalati mentali, vi è una spinta di solidarietà ad
intervenire per i propri “volksgmussen” che per gli ebrei non opera.
Non si può nemmeno tirare in campo
soltanto il terrore poliziesco, che certamente c’era, ci sono singoli e
piccoli gruppi che aiutano gli ebrei, ci sono casi d’esecuzioni capitali nei
confronti di cattolici, protestanti, cristiani, per l’aiuto prestato; il
nazismo però temeva l’opinione pubblica, temeva, soprattutto nel corso della
guerra, il crearsi d’opposizioni interne.C’è un episodio molto indicativo a
questo riguardo: l’ultima gran razzia d’ebrei berlinesi avviene alla fine
del marzo 1943, si fa una razzia di un gruppo di 6000-7000 ebrei impiegati
nell’industria bellica, per deportarli verso est, alcune centinaia di questi
erano sposate con donne cristiane. Queste donne attendono fuori della
……………………….per una settimana finché non ottengono la
liberazione dei loro mariti. Ci sono episodi quindi che mostrano come delle
forme, seppur marginali di resistenza e d’opposizione erano possibili.
Si parla di persecuzione,
d’emarginazione sociale, d’espulsione dalla società degli ebrei, si
ricostruiscono, è vero, difficoltà e sofferenze, però vi sono aspetti che
tendono ad essere dimenticati. Si dice ebrei e, anche senza volerlo, si pensa a
dei diversi, che sono messi da parte, ma non è così, né in Germania, né in
Francia, né in Italia, è la persecuzione che crea il diverso stacca, incide
lacera qualcosa che era ben radicato, incluso nella società d’appartenenza.
Gli ebrei occidentali erano tutti profondamente assimilati ed integrati, lo
erano in genere quanti erano rimasti religiosi, legati alla comunità, e lo
erano quanti restavano legati alla comunità per affezione di una memoria e lo
erano quanti dell’ebraismo si erano completamente staccati.Victor Klempen non
rinnega le sue radici, ma non si riconosce più ebreo, “Se lo facessi -
scrisse – darei ragione al razzismo dei nazisti; e Jean Amery (Hans Mayer) in
questo straordinario libretto, male tradotto in italiano con Italiani ad
Auschwitz, ricorda “. Quel milione di contemporanei e lui erano fra quelli,
sui quali l’essere ebrei calò all’improvviso, al pari di un cataclisma, che
deve farvi fronte senza Dio, senza storia, senza speranza d’ordine messianico
nazionale. Bisognerebbe ripercorrere le decine di testimonianze, di percorsi
individuali che ci sono rimasti, campione rappresentativo delle migliaia e
migliaia che non hanno lasciato traccia: un trauma che segnò per tanti una
morte civile, una morte culturale, prima ancora della morte fisica. Hans Mayer
fin dalle leggi di Norimberga capisce che è finita, rompe con la Germania e la
cultura tedesca che è la sua, e diventa Jean Amery: continua poi a dire: “Con
gli ebrei in quanto ebrei non condivido quasi nulla: non la lingua, non la
tradizione culturale, non i ricordi d’infanzia” anche se ciò non impedisce
d’essere solidale con tutti gli ebrei minacciati di questo mondo.
Vi sono poi, e sono tanti, coloro
che riscoprono la propria nazione e la propria lingua e ritornano alle radici,
diventando sionisti. Ve ne sono
altri , come una ragazza figlia di un caduto della grande guerra, esclusa dalle
associazioni studentesche, che scrive al Reichsführer degli studenti il 16
novembre 1933 : “Succeda quel che succeda, non ci si potrà mai strappare il
nostro sentimento d’appartenenza alla Germania, non possiamo altrimenti, noi
siamo tedeschi“ e non a caso, già esclusi dalla vita culturale tedesca, gli
ebrei tedeschi raccolti nella Yüdiche
,associazione culturale tedesca, vollero inaugurare la loro stagione
teatrale con Nathen der Weisi (Natan
il saggio) di Lessing , manifesto
di un ideale e di un modello culturale opposto al nazismo, che pur affondavano
nella cultura tedesca le proprie
radici. Edith Stein negli stessi mesi in cui scriveva a Pio XI sollecitandolo a
pubblicare una pastorale contro il semitismo, in procinto di entrare nel carmelo
di Colonia, inizia a scrivere la storia della sua famiglia, per opporre ai
nazisti una più autentica immagine dell’ebraismo. Ricorda anche che sua
madre, persona molto religiosa , non riusciva a capacitarsi che qualcuno potesse
discutere la sua appartenenza alla Germania .
Ancora due aspetti sono fondamentali
: i caratteri d’unicità che la Shoah presenta anche rispetto alla sequela di
massacri di massa che punteggiano la storia dell’umanità, e il significato
delle tendenze revisionistiche o negazioniste che variamente cercano di negare
la realtà e la portata.
Tre sono gli aspetti per i quali per
i quali si deve parlare dell’unicità della Shoah. In primo luogo per il fatto
di essere il frutto compatto di un ‘ ideologia, di un ‘ ideologia di morte,
che ha lo sterminio come suo esito naturale e sbocco coerente.
In secondo luogo per gli strumenti
messi in campo per tale operazione. Campi per eliminare
i propri avversari politici o per sfruttare fino all’inedia il lavoro
schiavo sono esistiti altrove, basti ricordare i campi staliniani della Russia
sovietica. Sono prerogativa del III Reich i campi esclusivamente destinati allo
sterminio,delle vere e proprie fabbriche di morte.
In fine per essere riusciti a spersonalizzare i portatori di morte, per
aver reso in qualche modo anonimo e impersonale l’assassinio, un ‘ opera per
la quale e intorno alla quale erano in tanti ad operare, ma nessuno o pochissimi
in modo esclusivo, diretto e decisivo. Non è un caso che nel processo d’Auschwitz
gli avvocati difensori, che difendevano i medici e i militi delle SS ,parlarono
di “salvatori d’ebrei”, perché sulle rampe ne salvarono un certo numero
dall’invio immediato alle camere a gas .Questo sofisma giuridico conferma, però,
il ruolo in qualche modo sgravante che la pianificazione dell'assassinio
mediante camere a gas volle rappresentare rispetto ai metodi più diretti delle
fucilazioni indiscriminate di massa.
Alla responsabilità personale, gli atti personalmente compiuti, viene in
qualche modo sostituito l’anonimato di un “sistema”, perchè l’opera ,
gran parte dell’opera era un ‘organizzazione complessiva a compierla e
ciascuno si poteva sentire così in qualche modo sottratto ad una responsabilità
diretta, semplice rotella secondaria di un ingranaggio che operava anonimamente
e in ogni caso , secondo gli ordini superiori .
Le tendenze revisioniste –negazioniste
sono molto diverse tra loro e salvo eccezioni vanno nettamente distinte. Dei
negazionisti non meriterebbe parlarne, nel senso che non merita parlarne in sede
storiografica di ricerca storica; va però smascherata e denunciata la duplice
operazione ideologico propagandistica che cercano di realizzare. Da una parte
sgravare i nazisti e i loro alleati di una macchia che è loro e loro soltanto:
lo sterminio sistematico e pianificato di un intero popolo solo pershè è quel
popolo o come tale identificato. Dall’altra rilanciare su
larga scala l’antisemitismo ,se la Shoah non fosse esistita è evidente
che sarebbe frutto di una colossale macchinazione ,di una nuova cospirazione
ebraica realizzata per acquisire di fronte al mondo diritti e pretese altrimenti
improponibili. Vi sono poi quelli
che tendono a sminuirne la portata, non sono assimilabili ai primi, sono
posizioni diverse e variamente motivate; frutto di sordità e talvolta
di protagonismo .va tenuto presente però che possono anche corrispondere
a una reazione sbagliata, all’uso ritualistico, banalizzante e strumentale che
della memoria dell’antisemitismo e della Shoah si insinua e si manifesta qua e
là a coprire iniziative politiche che poco o nulla con quella memoria hanno a
che fare. Vidal Naquet l’ha denunciato da tempo per lo stato d’Israele.
Confesso che alcune commemorazioni del sessantennio delle commemorazioni
nazistiche, quale si è svolto lo scorso anno da noi, mi hanno fatto un ‘
impressione penosa, non solo per la loro affrettata sciatteria, per l ‘ aria
che avevano di voler mostrare a sé e agli altri quanto si è bravi, democratici
e mille miglia lontani dal poter correre il rischio di ripercorrere analoghe
strade ,ma anche per l’idea che vi affiorava che con quel passato tutti i
conti erano ormai collettivamente chiusi, e si poteva guardarlo per dir così
con distacco, tenendosi per mano. Personalmente non credo che sia così, perché
quelle vicende non hanno determinato nella nostra cultura, nei nostri nei nostri
modi di essere e di pensare e quindi nelle nostre istituzioni formative, come
nella pratica del lavoro umanistico, quel mutamento di atteggiamenti che la loro
enormità avrebbe richiesto.
Per quanto riguarda la storiografia
della Shoah c’è una bibliografia imponente
e cresce ogni giorno di più, così come imponente è la letteratura
memorialitica, opera di sopravvissuti, scritta e orale. All’indomani della
fine della prima guerra mondiale il silenzio che accolse la visione dei campi di
concentramento, portò tendenzialmente a confondere lo sterminio degli ebrei tra
i milioni degli altri morti provocati dalla ferocia nazista e dalla ferocia
stessa della guerra, cui gli avversari dei nazisti non erano rimasti estranei.
Già nel corso degli anni cinquanta alcune voci reagirono a tale tendenza ,
mettendo in luce la specificità dello sterminio degli ebrei (il Bréviain de la
Hain di Lion Poliahov è del 1951 e “The find solution” di Gerald Reithingen
del 1953), solo con gli anni sessanta la Shoah,
chiamata olocausto, divenne oggetto di una storiografia specifica e di
centri specializzati per la raccolta dei materiali per la ricerca, ma anche di
dibattiti più ampi (“Nostra aetate” del Vaticano II ,
A questi bisogna aggiungere il film
“Shoah” di Claude Lantzmann del 1985, che Vadal Naquet definì l’unica
opera importante di storia sullo sterminio prodotto in Francia, che mostra
attraverso immagini del presente come luoghi memoria siano recuperabili,
decodificabili quando la recezione non è meramente passiva.
Potremmo dire che sul come tutto ciò
avvenne si sa ormai molto con un progressivo allargamento della prospettiva
anche a nuovi responsabili. Nessuno mette certo in dubbio la responsabilità
principale dei nazisti, dei tedeschi impegnati nel nazismo, ma accanto alle SS
si è messa sempre più in luce la responsabilità della Wehrmacht,
l’esercito. Il libro di Bromming “Uomini comuni” è la storia di un
battaglione di riservisti, uomini assolutamente comuni, nemmeno particolarmente
coinvolti nel partito, che è impegnato a ripulire i villaggi russi e fa capire
come questi uomini possano diventare assassini sistematici. Per l’Italia
illuminante fino a un certo punto è l’ampio collaborazionismo allo sterminio
offerto dalla Repubblica Sociale Italiana, il recente libro di Luigi Canapini
“La Repubblica delle camicie nere” dà ampie informazioni al riguardo.
Tuttavia sul perché tutto ciò sia potuto accadere resta ancora molto da dire e
da cercare di capire, così come tutto o quasi resta a dire sulle conseguenze più
o meno sotterranee che quella vicenda ha avuto per i resti dell’ebraismo
europeo, per lo stato di’ Israele, per la politica mediorientale delle grandi
potenze d’Europa.
Di
là di ciò vi è un’altra questione che costantemente accompagna questo
sviluppo e questa crescita di conoscenza, l’impadronirsi quasi della Shoah da
parte della storiografia accademica, universitaria, in ogni caso canonizzata in
una serie di regole e di criteri da tempo precisamente definiti: è la crescente
diffidenza dei sopravvissuti, di una parte dei sopravvissuti, per tale
impadronirsi della Shoah da parte della storiografia, come se l’entrata in
campo degli studiosi comportasse una sorta di normalizzazione e banalizzazione
della Shoah e di tutto ciò che l’aveva preceduta.
Vi sono pagine di Jean Amery,
durissime e straordinariamente esplicite al riguardo: “L’antisemitismo e la
questione ebraica in quanto fenomeni storici, socialmente determinati
spirituali, non mi riguardavano e non mi riguardano. Sono in tutto e per tutto
problema degli antisemiti, sono la loro vergogna e la loro malattia. Erano gli
antisemiti a dover superare il proprio atteggiamento, non io. Farei il loro
sporco gioco se volessi esaminare quanta parte ebbero i fattori religiosi,
economici e d’altro tipo nella persecuzione degli ebrei. Se mi facessi carico
di una simile analisi non farei che accettare l’inganno intellettuale della
cosiddetta oggettività storica, secondo la quale gli assassinati sono colpevoli
quanto, se non addirittura più, degli assassini. Mi è stato inferta una
ferita. Ho il dovere di disinfettarmi e di fasciarmi, non di riflettere sul
perché l’aguzzino abbia alzato la mazza, non di comprendere i suoi motivi e
di arrivare quasi a discolparli.” E
nell’introduzione del 1976 aveva scritto: “Far luce in modo definitivo
significherebbe ……….liquidare, archiviare i fatti per poterli allegare
agli atti della storia” e aveva dichiarato la sua ribellione “contro un
presente che congela storicamente l’incomprensibile e così facendo lo falsa
in maniera vergognosa”
Claude Lausmann, dando testimonianza
del lungo lavoro compiuto per la composizione del film “Shoah”, non
diversamente ha osservato: “Dopo dieci anni di lavoro, comprendo meglio le
cose, il “come” dello sterminio. Quanto al “perché”, credo sia
necessario soprattutto non porre la questione. Si comincia con spiegazione
d’ordine economico, marxista, psicoanalitico, lo spirito ebraico opposto allo
spirito tedesco, ecc., e si finisce per dar vita armoniosamente al massacro: e
tutto ciò non è stato per niente armonioso. A colpo sicuro: bisognava ben
odiare gli ebrei per ammazzarli in quel modo, ma ad un dato momento vi è un
salto, vi è un abisso, e si pensa all’omicidio di massa”.
Citazione di questo tipo, d’Elie
Wiesel, Dora Levin, e si potrebbero moltiplicare. Costituiscono la denuncia di
un pericolo reale, di banalizzazione, trivializzazione, normalizzazione della
Shoah, che la proliferazione stessa di scritti al riguardo, storici e no,
rischia di produrre. Affermando d’altre parte l’irriducibilità della Shoah
a qualsiasi tentativo di spiegazione esauriente e unidimensionale, denunciano
l’astratta e sterile supponenza di una storiografia che ha preteso di
appiattire alla razionalità del proprio approccio e del proprio metodo, la
crudeltà, la sofferenza reale di cui è fatta la storia. L’enormità unica
dello sterminio svela i limiti che condizionano strutturalmente e costantemente
le nostre possibilità di comprensione e di spiegazione delle azioni e delle
vicende degli uomini.
Ma in quella diffidenza e in quella
denuncia non vi è solo questo. Perché esse corrispondono anche ad un‘idea
dello studio della storia e della ricerca storica, peraltro comune e
canonizzata, che pretendono uno studio e una ricerca condotta con superiore ed
equanime distacco (“sine ira et studio”), quasi a confermare l’antico
detto che “comprendere significa perdonare”. E’ questo cui Amery si
ribella, quando si rifiuta di accettare “l’inganno intellettuale della
cosiddetta oggettività storica”, quando rifiuta di comprendere i motivi degli
assassini perché così si arriverebbe “quasi a discolparli”
Ed è ancora questo che Lanzman denuncia, quando paventa che a forza di
spiegazioni si finisce “per dar vita armoniosamente al massacro”.
A questo punto si può chiedersi se
sia proprio secondo quei canoni, esclusivamente secondo quei canoni, che la
ricerca storica deve essere costruita, che lo studio della storia deve esser
condotto, o non è piuttosto la Shoah che per la sua stessa enormità svela i
limiti di una concezione e di una prassi di ricerca, limiti che non sono tali
solo con riferimento alla Shoah, perché investono e mettono in discussione un
intero costume intellettuale.
Nel corso dello stesso colloquio che
ha registrato l’intervista di Lanzmann, Henry Bulanko, presidente dell’Amical
des anciens déportés et résistants Juifs de Frace, ha espresso la convinzione
che “ ci manchi il distacco necessario per lasciare che la storia obiettivizzi”
un avvenimento come lo sterminio. “Essa deve tenere ancora conto –diceva –
di ciò che certi chiameranno la passione, altri la sensibilità”. Bulanko non
è uno storico, ma riproduce nello studio della storia l’immagine canonizzata,
che la vede distaccata, obiettiva ed obiettivizzante. Un’operazione ancora
impossibile, egli osserva, perché la passione e la sensibilità, parlando e
scrivendo delle persecuzioni ebraiche e della Shoah possono entrare tuttora in
campo. E' proprio in questo “ora non può che essere così, ” “ più
avanti però sarà altrimenti” che sta il vero nodo della questione.
E’ un luogo comune di buon senso,
che traduce l’esperienza psicologica dei più, che il tempo rimargini le
ferite e “allontani “dal passato. Dieci vent’anni dopo, la sofferenza
lacerante inferta da un grande dolore resta ben fermo nella memoria, ma come
lontana, attutita, priva della sua carica bruciante. Da questo punto di vista il
tempo storico riproduce su scala amplificata, nel succedersi
delle generazioni, un processo che trova la sua prima attuazione
nell’esperienza e nella vita individuale di ciascuno. Se, e in che misura ciò
possa avvenire realmente anche ai pochi scampati ai campi di sterminio è
questione su cui essi soltanto hanno il diritto di pronunciarsi.
Ma in linea di principio ci si può
chiedere se l’atteggiamento dello studioso di storia verso l'oggetto della
propria ricerca debba corrispondere alle regole e ai ritmi psicologici della
vita quotidiana, debba sottostare anch’esso, in una scelta sostanzialmente
inconsapevole, ai processi determinati da meccanismi involontari e da un
accumulo di sensazioni e d’esperienze prodotto dal mero vivere dell’uomo nel
corso di un tempo dato. Ci si può chiedere cioè se il ricorso all’analisi
razionale e ai metodi e agli strumenti richiesti da un corretto studio della
storia debba comportare o pretendere un tipo di distacco che non è frutto della
scelta consapevole di compiere freddamente il proprio mestiere, come scrisse
Lanzmann illustrando il lavoro da lui compiuto, ma che nasce da un estraniamento
sostanzialmente passivo, capace per questo attutire e ottundere passioni e
sensibilità.
Non ci si può chiedere se non sia
condizione necessaria, per un impegno di comprensione reale, reagire ed opporsi
a tal estraniamento quando esso si sia ormai determinato, recuperando quella
partecipazione affettiva e fantastica, quell’interesse vero e profondo, che
rappresentano credo, una premessa ineliminabile ad un lavoro storico. Può
esservi passione e coinvolgimento quando si parli o si scriva d’uomini e
donne, siano pur essi del passato. Il “de re nostra agitur”, non è una
divisa di comodo dello studioso di storia. Non posso e non debbo pensare allo
sterminio in una condizione psicologica pacificata. Mi domando se tale
“pacificazione”, in quei termini e in quegli esiti, non sia essa, in quanto
tale, intimamente contraddittoria al corretto modo di essere e ai compiti dello
studioso di storia, non sia , vorrei dire illegittima e produttrice soltanto di
risultati negativi. ' impegno al discernimento razionale dei fatti e delle
situazioni non significa né implica estraneità o indifferenza. Da questo punto
di vista credo sia difficile non riconoscere che una certa “serenità” dello
storico, tanto rivendicato da una lunga tradizione storiografica, sfiora a volte
l’impudenza intellettuale: non nasce da uno sforzo di penetrazione e
comprensione reali , ma piuttosto da sordità e astrattezza intellettuale. Non
condivido perciò ,e mi sembra più che mai improponibile, l’idea dello
storico che contempla “sereno” da un suo improbabile empireo il frenetico
agitarsi degli uomini. Considerata in questa prospettiva, l’unicità e
l’enormità della Shoah, incide nel profondo sulla consapevolezza del lavoro
storiografico, svela e propone una condizione che richiama lo studioso alle sue
responsabilità nei confronti degli ottundimenti e degli appiattimenti come
delle deformazioni della memoria storica collettiva.
Il discorso andrebbe a questo punto
allargato: perché riguarda un modo diffuso di studiare la storia, spesso così
parcellizzato e tecnicizzato da diventare totalmente asettico, come il nostro
modo di insegnarla e di divulgarla. Per evitare possibili equivoci aggiungerò
alcune brevi precisazioni.
Criticando il distacco e l’indifferenza di una certa
tradizione storiografica non intendo proporre una storiografia moralista o
processuale. Sono persuaso che l’unica lezione di moralità che va
riconosciuta alla ricerca storica sta nel suo impegno a capire, capire
realmente, dall’interno, le opere e le azioni umane, senza sopraffazioni o
deformazioni dettate dai nostri orientamenti o dalla volontà di trasmettere
segnali e messaggi. Ciò non significa cercare “giustificazioni”, così come
comprendere, contrariamente a quanto pretende il vecchio detto, non sempre
significa perdonare. Sono anche
persuaso che l’indignazione morale, necessaria più che mai al dibattito
d’oggi, poco serve per affrontare e capire le aberrazioni del passato né
basta per premunirsi dal loro proporsi in altre forme nel presente. Senza avere
troppe illusioni sulla sua efficacia e sulla sua capacità di incidere, altro è
il compito della storiografia. Ricevendo gli studiosi riuniti per un convegno
sull’inquisizione organizzato dalla commissione teologico-storica per il
giubileo del 2000, Giovanni Paolo II ha chiesto loro di chiarire i fatti del
passato, precisando però che non è compito dello storico formulare un giudizio
etico su quei fatti. Si può essere d’accordo: se per giudizio etico
s’intende in primo luogo un giudizio sulle intenzioni profonde, non è la
formulazione di tale giudizio che rientra nello specifico campo dello studio
della storia. Si deve aggiungere, anche, che compito dello studioso di storia,
fa parte integrante del suo lavoro, pur con tutti i limiti e i condizionamenti
che si porta dietro, formulare un giudizio storico sugli uomini, i fatti e le
vicende del passato, capire e valutare le ricadute e gli esiti che le loro
scelte, come quei fatti e quelle vicende, hanno avuto sulla vita degli altri
uomini, il ruolo svolto nell’orientare in un senso o nell’altra condizione,
processi, persistenze e mutamenti nella vita quotidiana e nei rapporti sociali.
E’ un aspetto questo da non dimenticare, in anni come questi di revisionismi
affrettati e di “ pacificazioni”, che troppo disinvoltamente pretendono di
ritrovare nel passato la loro giustificazione. A volte si parla anche di
“purificazione della memoria”. Non sempre capisco ciò che con questo
s’intende. Ciò di cui sono certi è che tale “purificazione” non può
mirare a liberarsi dal peso di un passato che si vorrebbe non fosse, ma solo a
guardarlo con occhi di verità, ad assumerlo per quello che è stato. E’
questo il servizio che gli studiosi di storia dovrebbero assumere nei confronti
della società. Non mi pare che sia
propriamente questo che le istituzioni pubbliche vengono loro chiedendo.
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